Stamattina mentre facevamo colazione, mia figlia di nove anni mi ha raccontato di aver sognato che la scuola ricominciava. I suoi amici venivano a casa. La scuola era nel nostro palazzo. Un piano inferiore al nostro. Erano felici di rivedersi, si abbracciavano. Capiva subito di aver sbagliato, che non lo potevano fare perché c’era il Coronavirus. Diceva ai suoi amici “non possiamo”. Poi tutti insieme prendevano un treno. Il treno era pieno. Lei aveva paura. Arrivavano al teatro per vedere uno spettacolo. C’era tanta gente. Come potevano vedere lo spettacolo? Non potevano stare tutti insieme al teatro. Era pericoloso. C’è il Coronavirus.
Le dico “Deve essere difficile stare lontano dai tuoi amici e non poterli abbracciare”.
Nel frattempo, l’altra mia figlia di cinque anni è irrequieta, s’innervosisce senza un motivo apparente. Si muove per casa in modo agitato. Protesta.
“Mi hai messo male i calzini!”. “Non capisci come farmi le trecce ai capelli!”.
Intuisco che dietro questi capricci si nasconde qualcos’altro. Capisco che le emozioni di questo strano periodo stanno per venire a galla dopo giorni di apnea.
Siamo al decimo giorno senza scuola.
Cerco di essere paziente e ponderata nelle risposte.
Si butta sul letto, sbatte i piedi e strilla.
Mi siedo accanto a lei. La guardo negli occhi: “Cosa c’è?”; “Sei agitata per quello che sta succedendo in questi giorni?”.
Scalcia più forte: “No, No!”.
Poi scoppia a piangere. Con gli occhi umidi mi dice: “Mi manca la maestra Violaine!”
Ci abbracciamo. Lei continua a piangere.
Siamo all’estero. Non ci sono i nonni, né gli zii, nessun parente. Ma da agosto finalmente è iniziata la scuola obbligatoria. Per te c’è la maestra Violaine. Dal lunedì al venerdì lei c’è. Un punto di riferimento esterno che arricchisce la famiglia. Ci permette di uscire dal nostro isolamento. Non vedi l’ora che il week-end passi per poterla incontrare. È una maestra piena di passione, di amore, di sorrisi, di storie e canzoni sempre nuove. Ora non sai quando la rivedrai e quanto sarà lungo questo week-end. Quando finirà?
Si stende sul divano.
Sua sorella grande le chiede: “Ma cos’hai oggi?”
“Sono triste”.
“Dai cerca di stare tranquilla, sennò ti rovini la giornata”.
Io: “Anche a me in questo periodo capita di essere triste”. “È un periodo in cui dobbiamo abituarci a vivere con queste emozioni.”
Dopo qualche minuto, tutto torna alla “normalità”. Si gioca, si colora, si canta.
Ma è davvero tutto “normale”?
Penso che questa situazione inizia a farsi strada nei loro mondi interni e nei mondi interni di tanti altri bambini. Penso ai bambini che vivono in situazioni di povertà culturale, di violenza domestica, che vivono in case dove non vengono visti, dove non ci sono libri, colori, fogli. Penso che per loro la scuola è l’unico ambiente sicuro che li salva e li nutre.
Penso che in base alla durata di questa situazione e al modo in cui i bambini l’avranno vissuta, ci saranno piccole o grandi conseguenze psicologiche. Questa condizione lascerà inevitabilmente dei buchi in ognuno di noi come in Giulia la bambina del libro “Il buco” di Anna LLeans (Edizioni Gribaudo).
“Giulia era una bambina normale, come ogni altra. La sua vita era felice e serena. Ma un giorno, all’improvviso, tutto questo finì e lei si ritrovò con un grande buco nella pancia”.
All’inizio Giulia cerca un modo per chiuderlo, ma pian piano inizia a comprendere che non può eliminarlo, inizia a prendere il bello che c’è dal suo buco e il buco diventa sempre più piccolo.
Penso che le mie figlie siano riuscite a parlare di quello che stanno vivendo ed è una fortuna immensa per elaborare questo momento.
Penso che noi genitori ci troviamo in prima linea ad affrontare questa emergenza emotiva. E allora cosa possiamo fare?
Non dobbiamo sentirci responsabilizzati o spaventati. Cose semplici possono aiutare noi e il nostro bambino.
Non neghiamo le emozioni negative. Lasciamoli piangere. Lasciamoli essere tristi e arrabbiati. Aiutiamoli a verbalizzare laddove non riescono, anche un disegno può canalizzare un’emozione.
Poniamoci in un ascolto semplice. Non dobbiamo indagare chissà quanto. Ascoltarli è già moltissimo.
Però per prima cosa ascoltiamo noi stessi, accettiamo le emozioni di questo periodo: la tristezza, la paura, la solitudine. Accettiamo i cambi repentini di umore. Accettiamo i nostri buchi emotivi.
Se siamo in grado di ascoltarci, saremo maggiormente in grado di ascoltare i nostri figli.
Quelle famiglie che poco parlano di emozioni, di come si sentono e di quello che provano possono usare questo periodo per imparare una nuova lingua o per esercitarla e migliorarla.
Magari possiamo iniziare con un gioco semplice: “Come ti senti oggi?”
E a nostra volta dire come ci sentiamo: “Io oggi mi sento così”.
Poi un po’ alla volta possiamo aggiungere i motivi che ci fanno stare in quel determinato modo.
“Sono felice perché…”; “Sono triste perché…”.
Per i bambini più piccoli che hanno difficoltà a verbalizzare possiamo disegnare degli smile (triste, allegro, pensieroso, spaventato). Il bambino potrà scegliere ogni giorno lo smile che lo rappresenta.
Giulia alla fine della storia si accorge che dai buchi possono uscire anche cose bellissime e che anche le altre persone hanno dei buchi e di questi buchi si può parlare. Essi si possono condividere.